Saravena, Dipartimento di Arauca. Colombia

Giovedi’ 21 agosto 2003

Una giornata particolare?

Quattro del mattino. Fuori e’ ancora tutto buio e silenzioso. Dalla strada che passa a dieci metri dalla casa non arriva il solito rombare dei mezzi blindati dell’esercito che, quotidianamente, scortano gli autocarri della OXXY, alla ricerca di nuovi pozzi di petrolio da perforare, verso il confine venuezelano.

Saravena e’ una cittadina di ventitremila abitanti situata negli “llanos” nord-orientali colombiani, ad est della cordigliera orientale. Appartiene al dipartimento di Arauca, uno dei tre utilizzati dal Governo di Uribe Velez per creare le cosiddette zone speciali di “riabilitazione”, luoghi in cui il governatore e’ un militare e qualsiasi atto politico sottende ad una decisione militare. Ad aprile di quest’anno la corte costituzionale non ha prorogato la legge che istituiva le zone e quindi il governo del dipartimento e’ tornato nelle mani di civili. Quello che non e’ cambiato sono le centinaia di poliziotti e militari che circondano il centro della citta’, controllando tutto quello che si muove da dentro garritte costruite con sacchi neri pieni di sabbia situate ad ogni angolo di strada. Civili e militari armati con fucili di alto calibro si mescolano nelle strade limitrofe al centro, quando le pattuglie camminano ai due lati della strada, puntando l’arma ad altezza d’uomo.

Questa zona e’ attualmente una delle piu’ martoriate di Colombia. Le FARC e l’ELN non danno tregua all’esercito ed alla polizia, i quali, non riuscendo a colpire quelli che ritengono responsabili di attentati dinamitardi e sequestri, si incattiviscono con i rappresentanti piu’ in vista ed impegnati della societa’ civile organizzata di Saravena. Sindacalisti, attivisti per i Diritti Umani, studenti e appartenenti a varie organizzazioni sociali, per l’unico motivo della loro appartenenza, vengono perseguitati quotidianamente, attraverso montature giudiziarie che li costringe nel ruolo di guerriglieri.

Ore quattro e un quarto. E’ particolare che non ci sia movimento di mezzi. Suona il telefono. Qualcuno comunica alla signora della casa che Alonso Campiño, sindacalista, vicepresidente regionale della CUT – Centrale Unitaria dei Lavoratori – e’ appena stato arrestato nella sua casa. Uno dei poliziotti mentre perquisiva la casa ha minacciato, puntandogli la pistola al volto, il figlio di undici anni, mentre la figlioletta di 20 giorni piangeva, risvegliandosi al fracasso delle guardie. Da mesi Alonso riceveva minacce da parte di varie autorita’ pubbliche. L’ordine di cattura e’ per ribellione. Alonso e’ fortunato perche’ durante le 90 perquisizioni effettuate all’alba di oggi solo in pochi casi i polizziotti, accompagnati dai “fiscales” – coloro che firmano gli ordini di captura, dipendenti del ministero di giustizia – hanno consegnato, o anche solo mostrato, tale ordine.

Ore quattro e venticinque. Si sente un elicottero sorvolare a bassa quota il quartiere dove viviamo. Suona il telefono. Juan Moncayo, coordinatore della Universita’ Interculturale del Sarare e’ stato arrestato. In casa si diffonde la paura. I quattro figli sono tutti svegli, la madre non smette di girare per la casa in preda all’ansia, mentre il capofamiglia, Johnny, del direttivo sindacale dei trasportatori, si veste ed esce di casa per andare ad avvisare i suoi compagni di quello che sta succedendo. Il figlio maggiore di 10 anni si offre di accompagnarlo.

Cio’ che sta succedendo lo apprederemo appieno piu’ tardi, quando nell’ufficio della Fondazione per i Diritti Umani “Joel Sierra” cominceranno ad arrivare ininterrottamente notizie di arresti, perquisizioni, rastrellamenti, minacce effettuate dalla polizia, dall’esercito, dal DAS (Dipartimento di Amministrativo per la Sicurezza del Ministero della Difesa) e dal CTI (Centro Técnico per le Investigazioni alle dipendenze della “Fiscalia”) che si protrarranno fino al pomeriggio inoltrato.

Ma cio’ che sta succedendo cominciamo ad apprenderlo meglio quando verso le quattro e quarantacinque sentiamo parlottare fuori casa e vediamo alcune ombre avvicinarsi alla porta. Sentiamo bussare. Ci aggiriamo in casa, chi alla ricerca dei vestiti, chi cercando qualcosa senza sapere bene cosa. Quando da fuori la polizia ordina di aprire, qualcuno lo fa e ci troviamo davanti a due poliziotti con giubbotto antiproiettile e pistola in pugno. Entrano rapidamente e uno di loro mi mette faccia al muro con le mani in alto. Comincia a perquisirmi tenendo la pistola a pochi centrimetri dal costato. Entra un borghese con uno stemma quadrato attaccato al gilet su cui giace la scritta “FISCAL”. Armato anche lui (per legge loro non potrebbero portare armi). Dico di essere giornalista. Smettono di perquisirmi e ci chiedono i documenti. I due cooperanti spagnoli, ospiti anche loro della famiglia, glieli mostrano, mentre io prendo il passaporto. Fuori ci sono quattro soldati ai lati della siepe con i fucili spianati e, di fianco alla porta, una persona vestita da militare, incappucciata (“sapo” li chiamano qui, spie civili della polizia, spesso paramilitari). Colui che comanda chiede di Johnny alla moglie mentre manda tre poliziotti a cercare in casa. Non trovano il ricercato. Si accingono ad andarsene. Sulla porta chiedo loro il motivo di questa azione ed i loro nomi. Rispondono con aggressivita’ se per caso non mi sono accorto che qui accoppano bambini con le bombe e che essendo visitatori di un paese straniero dobbiamo stare zitti. Non avro’ mai il piacere di conoscere il nome di questi tutori dell’ordine.

La signora ha cominciato a disperarsi sapendo il marito in giro per la citta’ nel tentativo di avvisare gli altri. La figlia piu’grande comincia a prepararsi per la scuola. I due piu’ piccoli si stiracchiano sul divano. Noi tre europei cerchiamo di riordinare le idee, mentre il telefono suona ogni cinque minuti. Molte famiglie si cercano per dare o ricevere notizie di quello che sempre piu’ prende la forma di un gigantesco operativo congiunto che ha il fine esplicito di smantellare tutte le organizzazioni sociali impegnate a vario titolo nella difesa dei diritti dei lavoratori, degli studenti, dei piccoli imprenditori, dei venditori ambulanti, dei Diritti Umani della zona.

Quando Ismael – attivista per i Diritti Umani della Fondazione – arriva a prendermi col taxi (qui raramente ci lasciano camminare da soli: sempre quancuno ci accompagna o vigila da lontano senza perderci di vista), sono le sei e un quarto. Mi ero dimenticato che dovevamo andare a fotografare l’entrata degli studenti nella scuola poiche’ spesso i soldati si mescolano agli scolari, armi alla mano, un po’ provocando, un po’ mostrando i muscoli e la divisa. In poche parole, cercando di terrrorizzare. Ovviamente non andiamo vista la situazione. Ci rechiamo invece nel palazzo vicino al centro (ma fuori dal cerchio militare) che ospita la Fondazione per i diritti umani “Joel Sierra” (intitolata ad un altro contadino di questa zona ucciso nel 1989). Le strade sono semideserte, con pochi venditori agli angoli da cui spesso, invece, si intravede il colore delle mimetiche.

Alle sei e trenta le prime ad arrivare al “Joel Sierra” sono due donne che denunciano l’arresto per ribellione del marito di una di queste. L’uomo era ferito e costretto in casa a causa di un attentato che aveva subito poco tempo fa. Passano dieci minuti ed altre due donne arrivano angosciate per denunciare la stessa cosa. Una serie di telefonate ci informano dell’arresto di altre persone e della fuga di alcune. Una telefonata avverte che anche Ismael e’ ricercato, mentre comunicano che hanno appena fermato e portato al posto di policía il taxista che ci ha accompagnati.

Alle sette e mezza gli arrestati conosciuti sono 12 mentre 5 sono i ricercati. L’accusa per tutti e’ ribellione e di far parte della guerriglia.

Nell’ufficio per i Diritti Umani arrivano anche altri attivisti che si attaccano all’unico telefono esistente per avvisare di quello che sta’succedendo. L’avvocato della Fondazione non e’ presente in citta’, i due computer hanno il modem fulminato e quindi la connessione ad internet non e’ possibile. Rimane un fax il quale comincia a surriscaldarsi quando, scritti i primi comunicati, si comincia ad inviarli continuativamente ad autorita’ pubbliche ed organizzazioni sociali.

Alle otto e mezza apprendiamo che il “gordo” Juan Carlos Murrillo, presidente della Fondazione “Joel Sierra” e’ appena stato arrestato assieme alla moglie.

Il custode del palazzo sale a dire che hanno visto portare decine di persone al posto di polizia, nella piazza centrale. L’esercito sta rastrellando le persone per la strada e le porta al posto di polizia per controllarle. Assieme ad uno dei due cooperanti scortati da una colombiana andiamo al posto di polizia. Osservato dai due che si fermano all’angolo della piazza, attravrso la strada verso la barricata di sacchi di sabbia, alta piu’ di un metro, costruita attorno alle rovine di quello che era il municipio, da un anno sede del quatiere generale della polizia di Saravena. Ci sono almeno quaranta persone raggruppate oltre la barriera, circondate da poliziotti armati. Due autocarri dell’esercito hanno appena finito di scaricare la loro “pesca milagrosa” (“pesca miracolosa” e’ un modo di dire ironico quando ignari cittadini vengono fermati ingiustamente). Fermo un soldato e chiedo spiegazioni. Mi manda dal suo capitano il quale, prima di farmi aprire bocca dice che l’esercito colombiano e’ attentissimo a rispettare i diritti umani delle persone e che quella in corso e’ una normale operazione di polizia. Il tenente-poliziotto ventenne che invece arriva per rispondere alle domande mi dice che si sta’ cercando un numero di persone che si avvicina a 300, che l’operativo durera’ fino a domattina e che alle persone fermate controllano solo i documenti. Peccato che nel recinto vi siano due persone in borghese che con una piccola fotocamera digitale stiano fotografandoli. Gli chiedo se per tutti esiste ordine di cattura ma mi risponde che non lo sa e mi saluta. Nel mentre tutti i fermati, in maggioranza taxisti, vengono lasciati andare.

Al rientro apprendo che gli arrestati certi sono saliti a 23. Tra di loro anche la direttrice della Casa Della Cultura, Gloria Medina, che spesso ha svolto funzioni come incaricata del sindaco. Il giorno precedente avevo accompagnato i due cooperanti a casa della signora. La visita serviva a pianificare l’utilizzo dei computers della Casa della Cultura, per lo svolgimento dei corsi di informatica tenuti dai cooperanti. Un altro lo hanno arrestato all’ospedale, dove era ricoverato per una ferita da attentato. Sono le undici passate.

Con i pochi mezzi tecnologici a disposizione ed in mezzo ad una confusione sempre piu’ crescente, decidiamo di comunicare alle nostre rispettive ambasciate, spagnola ed italiana, quello che sta succedendo. Persone continuano ad andare e venire dall’ufficio in cerca di notizie. Nel frattempo i dirigenti sindacali o delle organización sociali che sono ospitate nel palazzo (tra le altre la CUT, la Fondazione e ASOJOVEL), quelli non ancora arrestati, via via si dissolvono nel nulla, mentre la segretaria aiutata da altri volontari sbriga tutto il lavoro informativo.

Qualcuno scende a comperare una decina di pasti da asporto all’angolo, cosi’ si riesce anche a mangiare. C’e’ chi si apparta con un computer per fare un gioco. Chi scherza sulla sua prossima sorte di ricercato e chi progetta un viaggio. Non sembra che la preoccupazione faccia breccia nei pensieri di queste persone, ma forse e’ solo una imprecisione delle mie sensazioni che cerca nelle azioni altrui una vaga sicurezza.

Al pomeriggio arrivano due avvocatesse e la notizia che i fermati certi sono 42. A fornire quest’ultimo bollettino di guerra e’ la “Personera” – figura che sovraintende al rispetto della legge da parte dello Stato circa il rispetto dei diritti umani durante e dopo le operazini di polizia. Viene accertato che due di questi, in realta’, sono solo stati fermati e poi rilasciati, quindi il numero si abbassa a 40.

Qualcuno urla che ci sono i soldati in strada. Dalla finestra vedo appostati all’angolo due militari che portano al braccio – come tutti i loro commilitoni da questa mattina – una fascia rossa. Mi spiegano che e’ segno di guerra. E’ segno che sono in guerra. Se la mettono tutte le volte che compiono operativi di questa fattura. Arriva un camion con altri soldati, ma invece che scaricarli, fa salire i due e tutto finisce li’. Tutti si aspettano una perquisizione anche di questo edificio, essendo sede di molte organizzazioni, cosi’ come e’ sucesso a ECAAS (sede degli uffici dell’aquedotto cittadino) e a ANTHOC (sede del sindacato dei lavoratori della salute e dei servizi sociali).

La “Personera” richiama dopo mezz’ora e dice che gli arrestati definitivi sono 30, di cui 18 sono in partenza per Bogota’ e 12 per Arauca. Per i dieci rimanenti stanno ancora verificando le accuse, mentre li trattengono nella sede del 18 battaglione dell’esercito.

Si continua ad aggiornare gli organi di stampa nazionali ed internazionali, le ONG e le organizzazioni per i diritti umani con i pochi strumenti disponibili, fino a quando viene buio ed alle sette di sera, mentre tutti ce ne andiamo, tre persone rimangono a presidiare il centro per tutta la notte.

Piu’ tardi un telegiornale diffonde la seguente notizia: “Nella giornata di oggi un imponente operativo congiunto, denominato "Operazione Exodo", conformato da piu’ di 600 uomini appartenenti alla polizia, esercito, DAS, CTI, Fiscalia Generale hanno inferto un duro colpo alla guerriglia delle FARC e dell’ELN. Durante la perquisizione di circa 90 abitazioni, sono stati effettuati 30 arresti di persone implicate con la guerriglia….. sono state scoperte connessioni tra il terrorismo internazionale e quello interno, mediate da una ONG che si chiama ‘Joel Sierra’….”.

Ecco. Il gioco e’fatto.

Non so quanto la gente di qui possa ancora considerare particolari giornate come questa, visto la frequenza con la quale e’ costretta a subirle e la devastazione che lasciano nel tessuto sociale. Cio’ che a me appariva una settimana fa come tremenda eccezione, oggi comincia ad assumere i connotati di una drastica quotidianita’, verso la quale l’unica particolarita’ che davvero conta e’ quella delle forme concrete di resistenza che la gente di qui organizza.

P.S.

Alle sei di giovedi’ 22 agosto il radiogiornale locale informa che gli organi di polizia hanno gia’ programmato un operativo nelle cittadine di Arauquita e Fortul per i prossimi giorni.

La particolarita’ continua.